giovedì 26 dicembre 2013

C'è sempre il sole a Philadelphia - Come riflettere attraverso venti minuti di pura comicità

Quante volte non abbiamo compreso dove sia il limite per passare dal rispetto al moralismo, al perbenismo, o al contrario dalla battuta all’insulto? Tre ragazzi, attori più o meno affermati, ma soprattutto meno, nel 2005 hanno colto nel segno e hanno realizzato con una spesa pari a 85 dollari l’episodio pilota di quella che sarebbe diventata la serie più dissacrante di tutti i tempi. Questi tre ragazzi, scrittori e co-produttori esecutivi della serie, si chiamano Charlie Day, Glenn Howerton e Rob McElhenney e insieme a Kaitlin Olson e al ben più noto Danny De Vito, aggiuntosi alla squadra a partire dalla seconda stagione, interpretano i proprietari e i lavoratori del Paddy’s Pub di Philadelphia nella serie intitolata C’è sempre il sole a Philadelphia (titolo originale: It’s always sunny in Philadelphia). Charlie, Dennis, Mac, Deandra, detta Dee, e Frank, i protagonisti, rappresentano la vera lower class americana, che nel nostro Belpaese ha trovato molto terreno fertile. Proprietari, tranne Deandra, esclusa in quanto donna, di una bettola nella periferia di una città di medio-alta grandezza, simbolo di come gli avvenimenti raccontati possano accadere in qualsiasi antro del mondo occidentale, non riescono ad arrivare a fine mese con i soli introiti della locanda e non si preoccupano di rimboccarsi le maniche e di rimettere in sesto il bar, ma cercano di guadagnare soldi per vie sempre al confine tra il legale e l’illegale, spesso anche aldilà di questo limite. Unica eccezione è Frank, che per cinquant’anni ha accumulato denaro su denaro con mezzi illeciti o, quantomeno discutibili, ma che decide di unirsi alla gang (così viene definito il gruppo all’interno della serie) e di imitarne i componenti in tutto e per tutto, a partire dall’abitazione: divide infatti uno squallido monolocale con Charlie.
L’incredibile ricchezza di Frank arriva spesso, come un deus ex machina, a risolvere il nodo comico per lo spettatore, tragico per i personaggi, trascinando fuori dai guai economici la gang. Altra ancora di salvezza per la gang è Matthew “Gamba di Legno”, o, secondo l’appellativo in lingua originale, che spesso ritorna anche negli episodi in italiano, “Rickety Cricket”, prete, laureato in teologia, convinto da Deandra, di cui è sempre stato innamorato, a lasciare il sacerdozio per lei, ma da lì sprofonda in una spirale di disperazione, scendendo di un gradino ogni volta che incontra la gang: i cinque ragazzi non si fanno scrupoli nello scaricare su di lui tutti i compiti ingiuriosi o i problemi conseguenti ai loro colpi di genio.
Ogni episodio inizia con l’indicazione dell’ambientazione temporale (ora e giorno della settimana) di quanto sta per accadere e sono orari spesso non rotondi, ancora una volta simbolo di come quello che si sta per vedere sia la normalità nelle periferie delle città dell’emisfero occidentale. Da qui segue una scenetta che cala subito lo spettatore nell’atmosfera della serie, in quanto troviamo spesso i ragazzi a discutere, consciamente o inconsciamente, di temi scottanti della società di oggi, come neonazismo, aborto, matrimoni gay, e tanto altro, e a tirare fuori dalle loro menti il meglio di quello che il popolo di istruzione medio-bassa può pensare in merito. Si arriva quindi ad una sentenza che spiazza tutti i personaggi, fuorché l’autore della stessa, e pubblico. Dal seguente silenzio attonito parte la sigla, vera e propria denuncia alla televisione concepita come fascio di programmi ideati da benpensanti per un pubblico di altrettanto benpensanti. In un’atmosfera da operetta con tanto di sinfonia classicheggiante, sfilano i luoghi turistici di Philadelphia corredati dai titoli di testa scritti nel corsivo dei biglietti da visita. Insomma, dietro un velo di musica classica e di riccioli rococò, che il pubblico medio ama guardare c’è il mondo vero costituito da esseri come Dennis, Charlie, Mac, Frank e Deandra e da situazioni come quelle che vivono e che rivelano la bassezza economica ed etica delle realtà nascoste di città vivibili e ricche.
Naturalmente qui in Italia, la serie ha provato a prendere piede, ma è stata disertata da emittenti più importanti e dal pubblico stesso, più avvezzo a vedere come brillanti avvocatesse scoprono il vero assassino di un complicato caso, o un simpatico prete dà la mano ai Carabinieri, o amici e, più spesso, medici si rincorrono in trame e sottotrame talmente complicate da far invidia a Menandro e anche sulla rete le puntate sono pressoché impossibili da trovare. Dobbiamo capire che giocare sui luoghi comuni, a patto che si rimanga sulla soglia dello scherzo, ci fa allontanare dal razzismo, ci fa capire quale sia la vera realtà che si nasconde dietro al velo di ipocrisia, falsa felicità e paillettes che le serie tv, anche in questi tempi di crisi, non rinunciano a sbatterci in faccia, consapevoli del fatto che rifugiandosi nelle loro storie a lieto fine, condite da battute politically correct il pubblico riesca a dimenticarsi di come è la realtà che vive tutti i giorni. Insomma, questa serie con la leggerezza di un programma comico ci cala nei vicoli del quartiere di periferia che vediamo come tanto lontano e che invece è a soli due incroci da noi. Facendoci ridere (non ha nulla del talk show che tra politici ed economisti in sala trasmette servizi di imprenditori disperati in piazza), questa serie ci fa riflettere, ci fa comprendere che non c’è sempre il sole a Philadelphia, a Roma, a Frascati.


 Ludovico Oddi

Nessun commento: